Tutto ha inizio su un doppio piano: davanti, la potente presenza scenica della parola di Daniele Ninarello che espone, come un oggetto con mille sfaccettature e rifrazioni di luce, il pensiero che ha dato origine alla sua ricerca creativa; dietro, uno sfilare silenzioso di coppie performer-musicista che si offrono al nostro sguardo, ciascuna nella matrice di un proprio semplice preciso gesto, come un symballein, un riunire le due parti spezzate di un simbolo.
Poi accade il silenzio.
I sei musicisti – due sono ragazze – con i loro strumenti (batteria, voce e campionatore, flauto traverso, sassofono, percussioni) creano un vero e proprio fondale, umano e sonoro, perfettamente illuminato, dal quale scaturisce una vibrazione, che passa dall’uno all’altro e insieme dà origine al movimento della prima coppia di performer in scena, ai quali si aggiunge una terza persona e poi una quarta.
Ha inizio così un andare circolare, magnetico, una gravitazione che tiene sempre collegati i quattro; il movimento è semplice, pulito, “accade una cosa alla volta”, come aveva raccomandato il coreografo. Quando è il tempo, entra un nuovo performer e uno se ne va, in un continuo avvicendarsi che coinvolge via via le nove danzatrici e i tre danzatori che costituiscono il gruppo. E ciascuno, ciascuna, nell’entrare nel ciclo di rotazione e rivoluzione – come pianeti di un piccolo e mobile sistema solare – per poi uscirne quando un altro entra nell’orbita, cede qualcosa di sé e prende qualcosa di un altro.
Lì il nostro sguardo, il nostro sentire possono muoversi liberamente tra il fondo, origine del suono, e lo spazio aperto e potenzialmente infinito del movimento, che si alimenta di quel suono e lo contamina a sua volta; un andirivieni tra i diversi piani ed elementi, libero di mettere a fuoco un punto o di cogliere l’intero.
Impercettibilmente, si va creando un accumulo di energia, velocità, suoni, complessità: lo spazio si apre e il tempo si dilata, fino a perdere i confini. Sembra di assistere alla nascita del kosmos, di percepire l’armonia delle sfere celesti, di comprendere la trasformazione vitale di una materia primigenia. Una cosmogonia che poco per volta, attraverso la contaminazione del gesto, si organizza e crea un linguaggio dei segni, un alfabeto misterioso e sconosciuto, scritto coi corpi.
Quei “corpi celesti” che, pur nell’obbedienza a una meccanica perfetta, rimangono profondamente umani; anzi lo diventano sempre di più, nel dissolversi dei confini individuali. E suggeriscono così la possibilità di essere, nell’umana irripetibile individualità, aperti all’alterità, alla contaminazione, alla collaborazione, al dialogo, alla polis.
Pastorale mi ha accompagnata in un punto antico e arcaico, nel punto di origine della complessità, là dove nasce il cosmo, là dove l’umano sperimenta il proprio limite e la propria possibilità di infinito.
Silvia Basso