Il sipario si apre: luce fioca, un ragazzo accoccolato su alcuni libri, una vecchia Renault 4 in fondo. Che strano. Non faccio a tempo ad inquadrare la scena che il teatro viene invaso dalla musica di Ludwig Minkus: è così penetrante accompagnata dal corpo contratto del giovane in primo piano che mi coglie un po’ alla sprovvista. In uno stato di confusa estasi sin dai primi secondi, non mi aspetto proprio che qualcuno osi parlare turbando quell’atmosfera magica, e invece, una voce proveniente dal palco dedica lo spettacolo agli illusi, ai reietti, ai cavalieri erranti, a tutti i teatranti.
Con questa premessa il mio timore era che la rappresentazione cadesse in una scialba critica alla società, ma fortunatamente non si è materializzata permettendomi di definire lo spettacolo di Monteverde anticonvenzionale e raffinato al contempo.
Tentare di individuare una trama e una consequenzialità precisa è sicuramente un’ardua impresa, tanto che consiglio di non cercarla, ma di godersi la viscerale bellezza che grazie all’indiscussa abilità dei ballerini e alla sofisticata scenografia diventa vera protagonista dell’opera.
Per quanto trasfigurato, lo spettacolo una cosa la fa intuire: il nostro Don Chisciotte si droga di hashish e libri sul palco per fuggire da una realtà deludente che non rispecchia la sua immagine romantica del mondo.
Se anche voi cercate evasione, andate a vedere Io, Don Chisciotte.