Pirandello è un autore che mette alla prova i propri lettori: nelle proposte tratte dalla sua produzione e affrontate nello studio scolastico di quest’anno ci siamo infatti trovati a interrogarci sul tema dell’identità, trovando spunti di riflessione nell’analizzare le significative somiglianze tra le vicende di alcune delle sue opere più conosciute e la nostra quotidianità.
Una di queste opere è il romanzo “Il fu Mattia Pascal”, in cui il protagonista si presenta da subito come un personaggio complicato, di cui è difficile capire le ragioni. Fin dalle prime pagine egli mette in discussione la sua vita – che non ama -, cogliendo un’occasione per inscenare una “prima” morte, seguita da una “seconda” morte, per poi alla fine perdere davvero la sua identità (o meglio collocazione sociale) e ritirarsi dal mondo come “il fu”. Questi passaggi non hanno potuto che acquisire un nuovo significato per noi nel momento in cui abbiamo assistito a ciò che accade a Vitangelo Moscarda, protagonista dello spettacolo teatrale “Uno, nessuno e centomila” tratto dall’omonimo romanzo che abbiamo visto a teatro.
Moscarda infatti capisce di “non conoscersi” appena si vede allo specchio con gli occhi della moglie. Non riconosce il suo viso, gli sembra di vedere un estraneo e in quel momento esatto comprende di non essere un’unica persona ma che in lui ci sono moltissime sfaccettature, idea che però non viene compresa dai suoi cari.
La somiglianza tra i due personaggi è innegabile: è la loro incertezza su chi siano veramente che emerge con forza. E appena prendono coscienza di sé la vicenda si stravolge: Pascal lascia tutto e scappa, mentre Moscarda impazzisce.
E’ interessante notare anche l’importanza che Pirandello ha affidato all’aspetto fisico in queste due storie, perché c’è tutto il nostro presente: è infatti l’aspetto fisico che abbiamo, come ci vestiamo o il nostro modo di atteggiarci che ci rende chi siamo, forma il nostro essere sociale. Una volta perso quello, la vita cambierebbe totalmente anche per noi.
Tra le due storie però ci sono anche molte differenze.
Vitangelo Moscarda nonostante le sue paure non si abbatte mai e prende la vita in mano per risolvere i problemi con decisione, persino con la forza, come quando ribalta da cima a fondo la propria banca per rigettare l’idea che gli altri hanno di lui di essere il figlio di un usuraio che vive dei soldi del padre, oppure quando inveisce contro la moglie che, fin dall’inizio dell’opera, lo tratta come un burattino affibbiandogli un soprannome ridicolo (Gengè) e perfino dei gusti che egli non condivide. Al contrario, Mattia Pascal rinuncia: scappa da tutti i problemi e dispiaceri che lo affliggono, la suocera e la moglie che lo maltrattano, la madre ormai morta e le due bambine che non ce l’hanno fatta. Fugge e cerca fortuna, ma appunto allontanandosi perde la propria identità, una metafora che colpisce chi legge perché Mattia Pascal, ormai diventato Adriano Meis, non riesce a risolvere i suoi problemi e ne crea solamente di nuovi fino al punto di dover “uccidere” la sua finzionale identità e diventare “nessuno”.
Ed è proprio la figura del “nessuno”, dell’inetto, che accomuna Vitangelo e Mattia, il loro rifiuto verso tutto quello che li circonda e perfino verso ciò che li rende delle persone (sociali). Ma in fondo per entrambi la libertà inizia non appena perdono quella identità.
Anna Cricini