Pirandello: il volto della finzione

Martedì sera abbiamo visto al Teatro Comunale di Vicenza lo spettacolo “Uno, nessuno e centomila”, opera teatrale tratta dall’omonimo romanzo di Pirandello che ci ha dato la possibilità di vedere in scena ciò che in parte avevamo già incontrato con la lettura del romanzo “Il fu Mattia Pascal”.

Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda, protagonisti rispettivamente di ‘’Il Fu Mattia Pascal’’ e ‘’Uno, Nessuno, Centomila” sono infatti personaggi che mettono in discussione la loro stessa esistenza partendo da un evento casuale: per Mattia Pascal si tratterà dell’errore di essere riconosciuto dai familiari nel corpo di un suicida che naturalmente suo non era, per Vitangelo tutto comincia da un banale commento della moglie sul suo aspetto fisico. Eventi che porteranno irrimediabilmente ad una “frammentazione” dei due personaggi, uno all’inizio della storia e l’altro alla fine, quando ormai le sue condizioni non sono più importanti per nessuno.

La differenza tra i due protagonisti sta nelle reazioni al riconoscimento e nella presa di coscienza della prigione che noi stessi non solo creiamo, ma dentro la quale, inconsciamente, ci barrichiamo: Mattia Pascal vede, da un banale errore, la possibilità di sottrarsi alla vita precedente che lo soffocata e faceva di lui un misero burattino comandato dal destino. Egli vede dunque la possibilità di essere l’artefice del suo futuro, divenendo però succube della bugia che credeva salvifica. Si comincia infatti a notare l’oppressione della menzogna già da quando, sorridendo ad ogni cosa, comincia ossessivamente e per diverse pagine, a inventare una storia fittizia che avrebbe dato un senso alla presenza vagabonda di quell’Adriano, che vanamente girando per città e luoghi, non aveva ancora trovato dimora. Diverse sono le scene nella quali si prova compassione e dispiacere per quelle anime costrette come lui a vagabondare nel mistero che la vita ci riserva, da quando sceglie il proprio alter-ego per vivere una vita nuova da lui decisa, a quando prova un’immensa gelosia verso coloro che, senza porsi tante domande, vivono invece la vita che spetta loro.

La crisi che stravolge l’esistenza dell’Io di entrambi i personaggi è volta, per Vitangelo Moscarda, al rendersi conto che come lui si vedeva e come credeva di essere e di esser visto non erano altro che costruzioni frutto della sua immaginazione, frutto della coscienza che, secondo Freud, ci manipola e protegge, non solo dall’orrore del mondo e dalla realtà, ma anche dal nostro vero essere, dalla parte che sopprimiamo ogni giorno e verso la quale, se si manifesta, nessuno è realmente pronto a reagire.

I due personaggi perciò partono dal porsi la domanda sul vero volto del mistero che in realtà risiede in noi, giungono a non provare più gioia nel vivere e a prendere ormai coscienza che la vita, una volta che ne metti in discussione il senso, non ha più valore per te, perché ne riconosci il vano destino segnato dalla prigione che ci si crea dentro la quale ci si convince infine di essere obbligati a morire.

In entrambe le storie dunque viene data ai personaggi la possibilità di vedere la realtà (non quella quotidiana segnata certo sì dalla cattiveria delle persone, ma quella che le persone nascondono a loro stesse) facendo però pagare a caro prezzo quanto concesso: essi perdono non solo le certezze che prima costituivano i capisaldi della loro esistenza, ma facendoli anche passare per pazzi, costretti ora a vagare nel mondo, divenendo spettatori e non più attori della vita, costretti a vivere per sempre da soli, perché quanto visto e appreso è incomunicabile a persone che tante domande non se ne fanno e, ha come conclusione, il raggiungimento del medesimo risultato: l’esser scambiati per matti.

Dall’esperienza del teatro e dalla lettura del libro ho rimodellato la mia visione della realtà, vedendo ora i cosiddetti “matti” come detentori di segreti e misteri, che però, sono drammaticamente costretti a tenere per loro.

Sophie Giordano