Il teatro è un luogo in cui si guarda qualcosa. Ma si può guardare in tanti modi, senza tuttavia capire o partecipare, attivamente, all’azione. Ci sono diversi gradi da dover superare per guardare: il primo, a mio parere, è l’ammirazione, l’essere così meravigliati e interessati da voler continuare a guardare. Il secondo, la ricerca: l’attesa che un avvenimento si verifichi o che qualcosa di oscuro si illumini. Il terzo, è il decollo. Posso affermare con abbastanza sicurezza che quando il sipario si è aperto ho provato ammirazione. Che quando le rime hanno iniziato a seguirsi ho ricercato in continuazione la parola successiva. Che quando i cavalli colorati, impennati sullo sfondo, sono stati illuminati, la mia immaginazione è volata, su, come Astolfo su quell’ippogrifo immaginario che Accorsi costruiva con i suoi gesti. Astolfo, sulla luna, ha recuperato il senno di Orlando: ironico che il volo della mia immaginazione, in quel teatro, me l’abbia fatto perdere per più di un’ora. Ancora più ironico, forse, che la perdita di quella realtà mi abbia fatto avvicinare ancora di più alla scena, con il giusto distacco, con la giusta capacità di capire cosa stesse accadendo. E che mondo è mai uno in cui non serve serietà e maturità per capire? Un mondo in cui quando una persona indica il soffitto, lontano, e esclama “Un ippogrifo!” ci si può voltare senza sentirsi deridere con un “AH! Te l’ho fatta!”. Un mondo in cui un castello appare davanti ai nostri occhi ma ci sembra ancora di essere creature razionali? Gli applausi alla fine dello spettacolo mi hanno ricordato che questo mondo si chiama teatro. Eppure, tutte le altre volte in cui sono stata seduta su quelle poltroncine rosse, non ho mai perso la cognizione dello spazio e del tempo come venerdì, dunque non ho potuto far altro che chiedermi il perché.
Forse la risposta è proprio nel guardare: quando si guarda con tanta intensità, infatti, in qualche modo l’attenzione non si concentra più sul palco, ma su di noi: si osserva per più di un’ora qualcosa di troppo assurdo da accadere nella vita quotidiana, ma che diverte a tal punto da chiedersi cosa dovremmo fare per essere lì anche noi, per entrare a far parte di quel grande gioco che sembra ridicolizzare ed essersi dimenticato i problemi del mondo. Ma Ariosto non voleva che le persone rimanessero intrappolate in quell’universo: interveniva e ironizzava talmente tante volte da impedire al lettore di rimanere assorto, e anche durante lo spettacolo il suo volere è stato rispettato. Prima di scrivere queste parole non sapevo come chiamare quella sensazione che mi ha accompagnato fino all’uscita del teatro, ora invece so che il suo nome è rabbia.
Rabbia, perché se nel labirinto ariostesco sarei stata sempre un’eterna spettatrice, in questo mondo devo essere una protagonista. Rabbia perché ognuno di noi ha la propria Angelica da inseguire, ma in molti falliscono. A teatro tutti ridevano di coloro che vedevano il loro oggetto del desiderio svanire davanti ai loro occhi, ma qui, nelle nostre case, non raggiungere i nostri sogni è una tragedia. Rabbia perché è troppo ironico sentire centinaia di spettatori ridere per un tentativo di stupro fallito e criticare silenziosamente il personaggio, quando in strada di stupri ce ne sono in continuazione, molti riusciti e anche quelli falliti troppo poco divertenti.
Rabbia perché sarebbe bello vivere in un mondo in cui c’è sempre qualcuno pronto a salvarti, un Ruggiero che si cala dal cielo a recuperare una donzella in difficoltà… rabbia perché in un qualche modo contorto anche nell’Orlando Furioso l’eroe non è mai senza macchia: Ruggiero dopo aver sottratto Angelica dalle grinfie di quel mostro ha provato a violentarla; Orlando, quando ha fatto lo stesso favore a Olimpia, sperava fosse Angelica. Rabbia perché se anche in un mondo immaginario non esiste l’altruismo senza fini, dove va cercato? Rabbia. Rabbia perché forse quel mondo di immaginario ha ben poco. Rabbia perché il solo fatto di aver usato l’immaginazione mi aveva convinto di aver costruito qualcosa di surreale. Rabbia, rabbia e rabbia. Rabbia perché ho appena capito come mai il momento in cui Orlando diventa furioso è stato l’unico in cui ho sentito di essere vicina ad un personaggio. Rabbia perché mi sembra di essere entrata io stessa in un labirinto, in cui rincorro continuamente un pensiero senza riuscire a carpirlo. Rabbia perché è questo che vuol dire perdere il senno.
Rabbia, perché se quella sera Accorsi ha giocato con l’Orlando, l’Orlando ha giocato con me, e mi ha fregata.
Anna Comelli – Liceo Pigafetta, Vicenza