Io, don Chisciotte di Monteverde ha fatto il pienone. Il teatro comunale, l’8 dicembre, era gremito.
Il sipario si alza, e il balletto comincia.
Sul palco c’è un ragazzo. Indossa una canottiera e un cappotto lacero, e legge: Don Chisciotte. Non è il don Chisciotte di Cervantes, il vecchio con l’armatura, ma uno che vive più o meno quattrocento anni dopo, in pieno ventunesimo secolo. Chi sono gli esclusi, oggi? I reietti, i matti? Chi può essere Don Chisciotte? Un barbone. È un barbone che si sente così fuori posto, nel suo mondo, che tenta di andarsene, di scappare: in un primo momento con i libri, poi, quando i libri non sono più abbastanza, con l’acido. Don Chisciotte è un drogato, ed è la droga a diventare, nello spettacolo, la scusa per fargli vedere cose che in verità non ci sono: Dulcinea come una principessa, un ventilatore come un mulino.
Da balletto, lo spettacolo parla attraverso i corpi. Per me, che non sono per niente abituata a questo, che anzi cercavo le parole, è stato difficile: non ero affatto disposta a interpretare uno spettacolo.
Parlandone poi con il gruppo di teatro, però, sono arrivata a percepirlo come quasi un gioco, e sono tornata a casa con il gusto della curiosità, di voler capire che cosa mi era stato mostrato. Mi è venuta voglia di riguardarlo e di provare a farlo un po’ mio, di vederci quello che mi sembra importante. Ed è questo, forse, il motivo per cui ne vale la pena: rispecchiare quello che c’è nella mia testa..